90’s generation: una generazione che sa solo cosa non è

Dimmi in che anno sei nato e ti dirò chi sei. No, non funziona proprio così, ma quasi, dato che l’associazione tra la personalità di un individuo e la propria generazione di riferimento può dire molto.

Qualcuno li ha chiamati Generazione Y, qualcun’altro Millennials. Studi di censimento ancora stanno cercando una precisa collocazione temporale per potere stabilire come classificare i nati tra il 1985 e il 2000. Giovani che si sono trovati avvolti da una condizione poco favorevole, una condizione che difficilmente lascia spazio ai sogni, ma che travolge con le paure. I giovani odierni sono nati in uno sfondo che da una parte è contaminato dalla paura del futuro data la mancanza di certezze, e dall’altra dalla presenza di un mondo nuovo, quello virtuale, in continua evoluzione, che rende possibile a tutti il successo, ma a volte illude sul suo facile raggiungimento:

basse aspettative e rassegnazione da una parte, massimo successo di alcune persone dall’altra.

Gli anni del cambiamento

Gli anni 90 sono stati un’epoca di grandi trasformazioni sociali. La Germania vinceva i mondiali in Italia e poco dopo sarebbe divenuta uno Stato unico, l’Unione Sovietica cadeva pezzo dopo pezzo, Nelson Mandela trasformava il Sud Africa nella prima democrazia del continente. In Italia Falcone e Borsellino morivano in due attentati, scoppiava lo scandalo ‘Mani Pulite’ e Berlusconi dava inizio alla Seconda Repubblica. In Europa arrivava la prima Play Station e il telefonino iniziava a diventare uno strumento di massa. MTV cominciava a diventare una vera istituzione, Sarajevo veniva bombardata, mentre prendeva forma l’Unione Europea. Le icone del rap Notorius Big e Tupac morivano ammazzati, gli Oasis dominavano la scena rock mondiale e nel frattempo fenomeni come le boyband impazzavano. Nasceva Google. Nei campi di calcio c’era ancora Roberto Baggio. Michael Jordan e i suoi Chicago Bulls diventavano fenomeno sportivo e mondiale. Al cinema usciva “Titanic” e Max Pezzali cantava “Gli anni”. In televisione arrivavano i Simpson e il Festivalbar.

Il mondo stava cambiando ma eravamo troppo piccoli per capirlo.

Problematiche e controversie

In un mondo economicamente incerto è probabile subire la naturale preoccupazione dei genitori, che sin dalla prima infanzia iniziano ad insistere molto sulla formazione scolastica dei loro figli, indirizzandoli verso quella che secondo loro può essere la strada che può portare il figlio ad un futuro migliore (un futuro con una presunta stabilità economica). È da qui che nasce la grande depressione, la grande frustrazione di questa generazione: un confronto infelice con un’altra generazione che non ha minimamente toccato tematiche e problematiche dei giovani di oggi, che porta alla creazione di un gap di difficile riempimento. Viene detto che ormai la laurea è fondamentale per lavorare, ma poi in realtà anche con questa niente è sicuro.

Resta poco spazio al “cosa vorresti diventare” e tutto viene coperto dal “cosa dovresti diventare”.

Forse è questo uno dei motivi del “boh”. Non c’è più il sogno di acquisire le competenze per svolgere un determinato lavoro, ma c’è la paura di non prendere la strada giusta, c’è la paura di non farcela.

Tutto ciò toglie anche la riflessione su sé stessi, sulle proprie attitudini, sui propri desideri, perché in un certo senso “non ci si può permettere di fare il lavoro che piace, in quanto è già tanto che si faccia un qualsiasi lavoro”. Come ci si può impegnare e sforzare di raggiungere obiettivi sbiaditi, poco definiti e poco voluti?

Chi saremo da grandi?

Volevamo fare “il lavoro che ci piace”, però che fosse retribuito. Volevamo fare esperienza, ma puntualmente cercavano qualcuno che ne avesse già. Volevamo tante cose, e ora siamo la generazione di mezzo: quella a cavallo tra il vecchio e il nuovo mondo, dei nativi digitali, dei pochi ricchi e dei tanti poveri, del lavoro precario, della disoccupazione e della pensione come chimera, del disinteresse verso la politica e della fuga all’estero come unica salvezza. È come se in realtà avessimo perso qualsiasi forma di sensibilità al dolore per abbracciare la negazione nichilistica e assoluta di tutto quello che ci circonda.

“Più che una generazione, sono una specie in mutazione. Con il cambiamento epocale scritto nel nome. Li chiamiamo millennials, con una definizione che evoca le incognite delle grandi svolte, l’inquietudine del numero mille.”

Marino Niola
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