Un paese sempre più rancoroso, arrabbiato, prepotente: cosa sta succedendo agli italiani?
Nel giro di qualche settimana gli italiani si sono trovati davanti a due casi di cronaca sconvolgenti, di violenza , che vanno ad unirsi all’enorme mole di notizie analoghe che in questi mesi continuano a susseguirsi su tutte le piattaforme. Due morti orrende, tristi, becere. Sia per le modalità sia per le motivazioni.
Futili, come nel caso di Willy Duarte Monteiro, dove la violenza ha solo trovato terreno fertile per emergere senza alcuna ragione. Sempre a patto che la violenza ne ammetta di ragioni.
Ben precise, come nel caso di Maria Paola Gaglione, legate a ragioni di omofobia e transofobia.
Non bisogna in alcun modo sottovalutare gli episodi, guai a dimenticarli, catalogarli come tragedie sporadiche. Non è così. Minimizzando corriamo il tangibile rischio di diventare complici della degenerazione della società italiana.
Una degenerazione che facciamo finta di non vedere, un allarme che facciamo finta di non sentire.
Da cosa nasce tutta questa violenza?
È di certo un’età particolare quella che viviamo, un’epoca nella quale alcune dinamiche sociali di aggregazione, in particolar modo quelle che fanno parte dell’emisfero maschile, sembrano aver fatto 100 passi indietro anziché in avanti.
La figura del maschio ha bisogno di una nuova attenzione, di una nuova luce, con la quale riportare in auge una discussione che fino ad ora si è fatto fatica ad affrontare: il maschio è esso stesso vittima della cultura machista.
Ma che cos’è la cultura machista? Per machismo infatti si intende quella mascolinità esibita in netta opposizione a tutto ciò che è considerato prettamente femminile. Tutto ciò che è stupidamente considerato più debole.
Una completa inibizione dell’empatia, della sensibilità, della vulnerabilità, a vantaggio della prevaricazione, della spavalderia e dell’imperturbabilità. Norme di genere, accompagnate da una netta separazione tra il mondo femminile e quello maschile anche in rapporto alle emozioni.
La tristezza, per esempio, è considerata appartenente ad una sfera tipicamente debole: il macho non può provare tristezza, ma rabbia.
Il male che sta minando la nostra società, che sempre più spesso si trasforma in odio, violenza, arroganza, sopraffazione. Per esaudire quella voglia di accanirsi contro chi è più sensibile, contro chi è percepito come più debole.
È il caso dei fratelli Bianchi e del loro sistema simil-mafioso con il quale avevano seminato su tutto il territorio una vera e propria campagna di terrore, che aveva orgogliosamente portato loro rispetto e paura da parte delle altre persone della comunità.
È il caso del fratello di Maria Paola, Michele Gaglione, che con prepotenza e dispotica ossessione voleva arrogarsi il diritto di scegliere cosa fosse giusto per la sorella.
Perché lo stereotipo del machismo è strettamente collegato al discorso culturale sull’omofobia: il soggetto che ha come valori fondamentali della sua esistenza la forza e la virilità, tende a giudicare negativamente coloro che non rientrano in questo stereotipo di mascolinità, di presunta normalità.
Le cause sociali del fenomeno
C’entrano davvero poco le stupide e vane questioni portate da un certo tipo di giornalismo che preferisce non vedere piuttosto che affrontare dinamiche e problematiche sociali ed istituzionali molto importanti.
Non c’entrano i tatuaggi, non c’entrano i muscoli, non c’entrano le arti marziali.
C’entra piuttosto la totale assenza di dialogo sul territorio da parte di chi di dovere nei confronti di questi soggetti facilmente influenzabili da un determinato tipo di cultura. La causa di tutto questo è l’assenza di istruzione, l’assenza di un contraltare importante con il quale rivalutare le proprie posizioni.
Una non-educazione che sta straripando: quella del senso civico, della tolleranza, del rispetto della diversità.
Bisognerebbe, fin da subito, insegnare ai bambini che non è importante prevalere sull’altro, che non è necessario dimostrare di essere un alpha per affermarsi su dei beta. Che non è necessario tracciare per forza di cose una differenza tra noi e gli altri. Che gli strumenti a nostra disposizione possono essere dialogo, capacità di ascolto.
Queste sono dinamiche che appartengono al mondo animale, dal quale fortunatamente l’uomo si è distaccato grazie alla formazione e allo sviluppo del pensiero critico. Perché non farlo fruttare?
C’è bisogno di uscire dal concetto di branco e ritornare in quello di comunità, dove i parametri di crescita sono merito, studio, impegno, capacità di interagire, generosità, saper fare squadra.
Oggi questi copioni sociali non sono più ammissibili né applicabili.
Una lezione per tutti
Il machismo è un atteggiamento di violenza sociale e culturale deleterio, per la donna così come per l’uomo. Costringe a una gabbia, uno stereotipo. Il maschio deve costantemente preoccuparsi dell’immagine che dà di sé, del suo ruolo sociale e pubblico. Deve mostrarsi dominante e vincente.
Non esistono limiti né freni. Per questo ci si spinge anche verso azioni ritenute ‘da duro’ senza percepirne la pericolosità. Non c’è spazio per dubbi, debolezze, tristezza.
Più che essere uomini è volontà di dimostrare di esserlo a tutti i costi.
Cosa ci lasciano, dunque, in consegna due morti come quelle di Willy e Maria Paola?
Willy ci ricorda che bisogna avere il coraggio, la determinazione e la generosità per combattere questo fenomeno. Non ha girato la testa dall’altra parte, non è stato in silenzio.
Maria Paola ci ricorda che amare non è mai un errore, che non ci sono colori, generi, dimensioni, idee: l’amore è universale e in quanto tale va semplicemente accolto, lasciando che esso accada.
Quanto a me, quando sarò al cospetto della prepotenza, della prevaricazione, penserò a loro, alle loro vite che non ci sono più.
Lo farò per farli rivivere nei miei gesti, nelle mie battaglie.
Perché la missione appartiene a tutti: ognuno di noi ha il dovere di rendere questo posto un mondo migliore, al passo con i tempi.
Un posto che sa tollerare.
Un posto nel quale poter essere, senza bisogno di dover dimostrare.
ambasciator.it
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STEFANO POPOLO
CEO & Founder
Classe 1993, fondatore di Ambasciator e giornalista pubblicista.
Ho pensato al nome Ambasciator per raccontare fedelmente la storia delle persone, come strumento e mezzo di comunicazione senza schieramenti. Ambasciator, non porta penna.