Davide Berruti e il mestiere della pace

Davide Berruti

Davide Berruti ci spiega il mestiere della pace: “mio papà va in giro a cercare di far fare la pace a quelli che litigano

Chi è Davide Berruti?

Davide Berruti è laureato in Lingua e Letteratura Araba presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”.
Esperto di peacebuilding e trasformazione nonviolenta dei conflitti, è stato coordinatore nazionale dell’Associazione per la Pace dal 1999 al 2005. Ha collaborato, inoltre, con numerosi Master universitari e corsi di formazione professionale in tutta Italia per la preparazione del personale impiegato in missioni internazionali. Per diversi anni ha guidato le missioni di Intersos in Sud Sudan, Giordania, Repubblica Centrafricana e Camerun. Oggi lavora come coordinatore della formazione e dello sviluppo del personale per Intersos. Davide è anche autori di tre libri: “la chiamavano guerra-Appunti di viaggio sulla pace e sull’arte di costruirla”, suo primo progetto letterario, l’ebook “il virus della democrazia – L’arte del buongoverno spiegata a mia figlia” e “dieci dritte per essere viaggiatore”, ultimo progetto basato sulle esperienze dei suoi viaggi, personali e lavorativi.

Il racconto di Davide Berruti

Se avessimo chiesto a sua figlia, ci racconta Davide, fino a qualche anno fa ci avrebbe risposto così: “mio papà va in giro a cercare di far fare la pace a quelli che litigano“.
Gli abbiamo chiesto, quindi, di raccontarci il suo lavoro in modo semplice e diretto, così da far conoscere i segreti di questa splendida professione ed, eventualmente, aiutare a orientare le decisioni legate agli studi con maggiore consapevolezza.

Il tuo lavoro è motivo di curiosità per molti, puoi spiegarci concretamente in cosa consiste?

Lavoro per Intersos, una Organizzazione Non Governativa che opera nelle maggiori crisi internazionali. Per alcuni anni sono stato responsabile delle operazioni in alcuni paesi: Sud Sudan, Giordania, Repubblica Centrafricana, Camerun. Oggi mi occupo della formazione del nostro staff e dello sviluppo delle carriere.

Raccontaci una giornata tipo in missione

In realtà non esiste una giornata tipo. Capita a volte che si debba restare fermi per giorni chiusi in casa perché fuori ci sono violenze o operazioni militari che non ci consentono di raggiungere le comunità. Altre volte capita che ci siano delle emergenze e bisogna andare in soccorso dei più vulnerabili o che ci si mobiliti per assistere centinaia di persone in fuga da qualche pericolo.  Insomma, a seconda dei contesti e dei momenti, la giornata si svolge tra lavoro di ufficio, momenti di formazione e riunioni, o anche vere e proprie attività sul campo, come la distribuzione di cibo, la costruzione di latrine, la visita ai centri di salute o il sostegno psicologico alle vittime di violenza. 

Qual è l’esperienza più bella fatta grazie al tuo lavoro?

Non c’è un’esperienza particolare legata a un solo paese, piuttosto un’esperienza che si ripete in ogni paese.
È l’incontro con il nostro staff nazionale in ogni contesto. Sono persone altamente qualificate, motivate e fidelizzate. Incontrarli nei paesi dove operiamo, significa vivere concretamente la solidarietà internazionale; non ci conosciamo, ma condividiamo gli stessi ideali, la stessa passione per l’aiuto umanitario e lo stesso linguaggio professionale.
La condivisione non è solo un approccio, è anche un’emozione intensa.

C’è stata una missione in cui hai davvero avuto paura? E, in generale, quanto pesa il pensiero del pericolo?

Pesa molto e guai se non avessimo paura. A volte la paura è necessaria per mantenere alta l’attenzione, ma d’altra parte non deve né bloccarti né farti perdere lucidità. Ho vissuto due guerre civili in Sud Sudan, l’insorgere di Boko Haram nel nord del Camerun e la guerra civile in Repubblica Centrafricana e posso dire che ho sempre avuto paura, soprattutto per le persone che lavoravano sotto la mia responsabilità. 

Quanto le istituzioni che dovrebbero tutelare questo tipo di situazioni sono effettivamente presenti?

Direi molto, pensando soprattutto alle Nazioni Unite e ad alcuni governi che finanziano l’aiuto umanitario e l’intervento in alcune emergenze. Purtroppo però, ce ne sono molte altre dimenticate e sotto-finanziate. Noi cerchiamo di non dimenticarle e di restare il più possibile vicini alle comunità anche quando il mondo guarda da un’altra parte.

A chi sogna di fare il tuo lavoro, che percorso di studi consiglieresti? – Un consiglio da Davide Berruti per gli studi

L’assistenza umanitaria ha bisogno di molte figure professionali, a seconda che si intervenga in un settore o in un altro. Salute, educazione, igiene, diritti umani, nutrizione, sono tutti settori in cui gli specialisti possono decidere di operare in contesti di crisi invece che in Italia o altrove. In questo caso esistono molti Master che preparano all’intervento nelle emergenze. Oltre a queste professionalità specifiche – diremmo tecniche – c’è molto bisogno di competenze manageriali. Per questo ci sono Master appositi che formano professionisti che abbiano le competenze trasversali per gestire operazioni complesse.

Acquisite le esperienze necessarie per consigliare, hai deciso di metterle su carta in un libro. Quando e com’è nata l’idea?

Quando svolgevo le mie lezioni di Conflict Analysis presso l’ISPI di Milano, alcuni studenti mi chiesero dove potessero trovare gli esempi che facevo nelle mie lezioni, ma io non avevo mai scritto una dispensa. Ecco, quello fu il momento in cui mi resi conto che era opportuno mettere su carta anni di esperienze sul campo. 

“La chiamavano guerra” è stato il tuo primo progetto letterario, com’è stato approcciarsi alla scrittura?

È stato molto spontaneo. Quando ancora non avevo deciso se dovessi produrre una dispensa o un racconto della mia vita, il mio editore mi disse: “fai quello che senti, segui quello che ti esce dalle dita”. E così è stato. Mi sono messo a scrivere e mi è uscito una sorta di saggio-racconto, alternando episodi della mia vita professionale con riflessioni e approfondimenti teorici.  

Hai nel cassetto altri libri da pubblicare?

Vorrei cimentarmi con generi diversi, sono soprattutto attratto dalle isole, diciamo da una “poetica dell’isolamento”, ma non so ancora questo dove mi porterà, diciamo che forse aspetto nuove ispirazioni…

È stato il tuo lavoro a portarti a viaggiare o la curiosità di viaggiare e conoscere a spingerti verso questa scelta professionale?

Non avrei mai potuto fare un lavoro sedentario e che non prevedesse di viaggiare e soprattutto di incontrare e confrontarmi con culture diverse dalla mia.

Qual è il viaggio più bello che tu abbia mai fatto?

Soprattutto i viaggi che mi hanno portato in luoghi remoti e fuori dalle rotte più comuni. Ricordo, ad esempio, una volta che per raggiungere un villaggio molto isolato al confine tra Sud Sudan e Sudan, ci siamo imbarcati su una lancia a motore e abbiamo navigato un tratto del Nilo in un paesaggio naturale da mozzare il fiato.

Qual è il viaggio che sogni di fare?

Beh, ce ne sono moltissimi, sia di piacere che di interesse professionale. Mi piacerebbe ad esempio visitare le comunità indigene che vivono lontano dalla civiltà in Amazzonia e le comunità polinesiane che vivono negli atolli più sperduti del pacifico. Tra l’altro mi risulta che abbiano dei sistemi tradizionali di gestione dei conflitti molto interessanti.

L’augurio personale di Davide Berruti per il futuro

Mi auguro che si possa viaggiare sempre di più. Un’esperienza come l’Erasmus, messa in piedi dalla Comunità Europea, dovrebbe coinvolgere tutti i giovani del mondo, senza distinzione di passaporti e senza bisogno di visti. Una mobilità responsabile è l’investimento per far crescere nuove generazioni senza paura della diversità, forti nei confronti delle ideologie radicali e aperti all’incontro. L’augurio è che il Mediterraneo torni ad essere un mare di pace.

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