In una Italia rurale tra l’Abruzzo e la Sardegna due giovanissime donne fanno i conti con l’abbandono.
Michela Murgia e Donatella Di Pietrantonio hanno scritto due romanzi che di fatto potrebbero essere letti come un’unica storia che vede come protagoniste una ritornata ed una fillus de anima.
Ma chi è l’Accabadora e quali temi affronta Michela Murgia in questo romanzo?
Al principio la storia è narrata attraverso la voce di Maria Listru, “l’errore dopo tre cose giuste” di Anna Teresa Listru e successivamente, dalla voce di Bonaria Urrai, l’Accadabora di un paesino della Sardegna degli anni 50 che prende con se la bambina.
Dopotutto è questo che è Maria: una fillus de anima, un patto tra donne.
E’ così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra.
L’autrice utilizza la figura leggendaria delle terre sarde, l’Accabadora, per raccontare una storia che tocca temi delicati come il rapporto madre-figlia e soprattutto il fine vita. L’Accadabora è un’assassina o come la definisce Murgia “una narratrice esperta in finali”, una figura che veniva chiamata dai familiari di moribondi per mettere fine alle sofferenze o da giovani donne per porre rimedio alle “gravidanze indesiderate”.
La Urrai si interessa da subito a “quella bambina cocciuta e sola” che vede rubacchiare in un negozio, nascosta dalla cecità degli adulti. Decide di prenderla con sé, di vivere come sarta agli occhi della bambina, come Accabadora agli occhi dei paesani e soprattutto come Tzia Bonaria Urrai, madre che a Maria “ha tanto da insegnare: come cucire le asole, come armarsi per le guerre che l’aspettano, ma sopratutto come imparare l’umiltà di accogliere sia la vita sia la morte”.
La scrittrice sarda non ha mai nascosto di essere da sempre interessata a figure di donne scomode.
Generazioni di donne che la Storia ha messo al rogo come streghe, donne che oggi vengono criticate, chiacchierate, date per “matte dalla collettività” su giornali e social.
Non smette di “rimestare”, “riflettere” e portare a galla la relazione madre-figlia e, più in generale, quelli che sono echi di incomprensioni mai chiarite tra genitori e figli.
Credo di essere figlia di un trauma. La generazione che mi ha preceduto non ha fatto pace con i suoi genitori. In qualche modo spetta alla mia generazione cercare di fare sintesi di quelle contraddizioni, di quei contrasti generazionali in cui tutto è successo nell’arco di pochi decenni. Per il momento io non riesco ad ambientare nessuna storia al di fuori degli anni 50.
Michela Murgia
La storia dell’ Accabadora è per questo un potentissimo monito ed una storia di quelle sussurrate in piena notte ad un’altra bambina, l’Arminuta.
Perché “come gli occhi della civetta, ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte, dove la loro funzione è la stessa della luna, necessaria a smuovere maree di senso in qualche invisibile altrove dell’anima”.
Chi è l’Arminuta della Di Pietrantonio, del resto, se non una bambina “lasciata”, eco del senso di abbandono materno provato dell’altra, Maria?
I compagni di scuola la chiamano “la ritornata”, l’Arminuta.
L’io narrante del romanzo è la voce adulta di una bambina lasciata da una madre povera che, non potendo badare ad “un’altra bocca da sfamare”, la affida alle cure di un’altra donna benestante senza figli.
Questa è l’Arminuta: un patto tra donne.
La bambina cresce nel benessere per poi, improvvisamente e senza una ragione apparente, venire “restituita” ai genitori naturali.
Donatella Di Pietrantonio come Michela Murgia parte dalle storie che ascolta da bambina per addentrarsi nel complesso rapporto madre-figlia.
L’ Arminuta nasce da storie che a mia volta ho ascoltato da ragazzina. Nel nostro territorio ma non solo nel nostro, questa pratica di dare i figli in adozione, che poi erano adozioni informali, atto che veniva messo in pratica da famiglie povere e numerose e questi bambini venivano presi da coppie benestanti, sterili, era appunto molto diffusa e io ne ho sentito parlare diverse volte. Ne rimanevo molto colpita e mi chiedevo, appunto, di chi questi bambini si sentissero figli.
Donatella Di Pietrantonio
L’elaborazione da parte di questa bambina del senso di “abbandono” e successivamente “ritrovo” della figura materna è il perno del romanzo.
Una bambina che, ricondotta nel nucleo familiare di origine, fa i conti con un contesto sociale sconosciuto, fratelli ed una sorella che le sono estranei, un padre imperscrutabile ed una madre che non riesce a comprendere.
Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. E” un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.
La storia della Di Pietrantonio viene letta dalla Murgia che plaude al lavoro della collega. Si trovano a dialogare attraverso le righe dei loro romanzi, attraverso le voci delle loro bambine-donne.
Le scrittrici descrivono la ruralità italiana attraverso la classicità della narrazione orale e, come streghe, ammaliano e seducono conducendo il lettore verso terre inesplorate.