FANTOZZI: analisi di un italiano qualsiasi

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Fantozzi, il personaggio, il mito e lo stereotipo. Paolo Villaggio è stato tra i migliori interpreti dell’italianità autentica ed originaria.

«Il mondo è fatto per la maggior parte da persone che nella vita hanno fallito. Grazie a Fantozzi ho fatto in modo che alcuni neppure si accorgessero di essere nullità. O al limite ho fatto sì che non si sentissero soli.»

Paolo Villaggio sul personaggio di Fantozzi

Così commentava l’attore, scrittore e comico Paolo Villaggio, durante un’intervista nel novembre 2013 in occasione del suo personalissimo monologo autobiografico “Vita morte e miracoli di un pezzo di m****”. Naturalmente, il riferimento era diretto al suo personaggio, più prolifico e apprezzato, il ragioniere Ugo Fantozzi, oramai icona indiscussa di un certo modo di fare cinema in Italia, e per l’Italia.

Il contesto

La saga dell’impiegato più amato della nazione ha inizio nel 1971, con la pubblicazione dell’omonimo libro. Ma la vera consacrazione, all’altare della popolarità, si otterrà solamente con l’uscita della prima trasposizione cinematografica del personaggio tanto amato, quanto compianto, da critica e spettatori. Nel 1975 esce infatti, nelle sale italiane, un film che farà da spartiacque nella carriera di Villaggio, che ne fu ideatore e sceneggiatore, con la regia di Luciano Selce.

Fantozzi” fu campione di incassi nel biennio 1974-75, legando saldamente, nell’immaginario comune, l’attore al personaggio da lui interpretato. La popolarità del distratto ingegnere non è affatto casuale: egli era (e forse lo è tutt’ora) l’idealtipo per eccellenza di quell’essere italiani negli anni ’70. In una qualsiasi medio-grande città della penisola. Fantozzi, come tutti noi, è figlio del suo tempo: l’Italia dei primi anni settanta – mi dicono – doveva sembrare il paradiso in terra. Il Bel Paese era ancora sotto la campana di vetro del boom economico dei decenni precedenti. La crisi del settore petrolifero ancora non aveva avuto drastiche conseguenze sull’economia. La decrescita industriale che, da lì a poco, avrebbe reso evidente la necessità di ricalibrare i modelli produttivi del Paese, era appena agli inizi. Insomma, si viveva bene. Gli effetti della ricostruzione post-bellica, con miliardi di lire investite in opere pubbliche, aveva frenato finalmente l’esodo migratorio verso il centro-nord Europa di migliaia di connazionali, che adesso vedevano concretizzarsi la possibilità di rimanere a lavorare in Italia (seppur emigrando da Sud a Nord). Di conseguenza, in questo clima di apparente sicurezza, si sviluppò anche in Italia quel settore dei servizi, quel terziario che oggi è apparato trainante di molte economie, compresa la nostra.

Nei decenni precedenti, si era passati velocemente da un sistema basato principalmente sull’agricoltura ad una industrializzazione forzata ed affannosa, seguita a ruota dallo sviluppo delle professioni impiegatizie e di contabilità. Ma è anche il periodo in cui le donne iniziano ad affermarsi nel mondo del lavoro. Certo, relegate ancora a ruoli secondari e di rappresentanza, dietro le loro scrivanie. Ogni padron, dirigente o alto quadro dell’azienda avrebbe desiderato una segretaria come la signora (“pardon, signorina”) Silvani, la non-bella-ma-affascinante collega di lavoro, sulla quale far ricadere ogni istinto maschile. Quella con la quale l’intero ufficio ci prova, ma lei, da donna italiana degli anni ’70 – fiera delle sue contraddizioni e in bilico tra la voglia di indipendenza e la necessità di accasarsi – non cederà subito alle avances dell’ingenuo ragioniere, preferendo inizialmente i colleghi più estroversi e facoltosi.

Nonostante i chiari segnali del progresso sociale, era un mondo ancora profondamente classista, come è evidenziato già nelle scene iniziali del primo film di Villaggio. La stessa azienda in cui questo è impiegato, la Megaditta – il cui nome ufficiale è – ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica – è posseduta e gestita da personaggi dai nomi altrettanto altisonanti e aristocratici: la massima carica è il Megadirettore Galattico il Duca Conte Balabam, apparentemente un Dio sceso in terra per punire e redimere ogni suo sottoposto. Immediatamente sotto di lui troviamo il Mega Presidente Galattico Arcangelo (capo della divisione amministrativa) e il Direttore Conte Corrado Maria Lobbiam, che svolge il ruolo di ispettore. E potremmo continuare all’infinito, tanto è vasta la lista di nomi e cariche improbabili con la quale gli impiegati dovevano rapportarsi giornalmente.

Fantozzi davanti alla commissione per le assunzioni

Con questo espediente narrativo, è facile notare quanto rigida fosse la gerarchia di comando e quanto asfissiante doveva essere la burocratizzazione del lavoro e dei dipendenti. Ed è evidente il rapporto tra il potere dei dirigenti e la muta subordinazione dei sottoposti. Quelle stesse rivendicazioni e le istanze che per anni erano state proprie degli operai proletari contro i padroni, ora appartenevano anche alla classe media, a quell’accenno di borghesia alla quale Fantozzi apparteneva. Si, perché i concetti elaborati nel tempo per rappresentare il lavoro operaio – soprattutto il concetto marxista di alienazione – oramai appartenevano trasversalmente a diverse categorie salariali. L’alienazione, intesa nella sua essenza come il distacco dalla propria individualità durante l’orario di lavoro, per “proteggersi” dalla ripetitività delle mansioni e dalla rigidità burocratica e produttiva, era già parte integrante della personalità dell’impiegato d’ufficio, anche se questo sedeva dietro una scrivania piuttosto che avvitare i pistoni in una catena di montaggio.

Società solida vs Società liquida

Insomma, era una società (ancora) solida, per usare un’espressione a me molto cara, poiché è il perno del ragionamento di uno dei massimi esponenti della sociologia, l’intramontabile Zygmunt Bauman. L’aggettivo “solida” intende una società tutto sommato funzionante, nel complesso, stabile. Una società nella quale l’ordine prestabilito delle cose assicurava, anche al disadattato e ingenuo Fantozzi, un suo posto nel mondo. Era facile ottenere un impiego – i tassi di occupazione non saranno mai più così alti – seppur la già citata alienazione tipica del lavoro subordinato, burocratizzato e fine a se stesso lasciasse poco o per niente spazio alla crescita personale.

Le tappe della vita erano prestabilite: un minimo di istruzione, poi il lavoro, farsi una famiglia e infine andare in pensione. Ottenere un impiego era relativamente semplice, così come costruirsi una famiglia – nella sola accezione di famiglia tradizionale, naturalmente. Questo era lo specchio di una società del benessere che, nel bene o nel male, noi non avremmo modo di sperimentare. Erano però, già allora, molto evidenti quelle consuetudini consumistiche che da lì a qualche decennio sarebbero diventate il tratto più caratteristico delle società contemporanee. Non c’era ancora una netta divisione tra il tempo del lavoro – che occupava una buona parte della giornata – e quello dello svago, regolato e organizzato però dalle aziende stesse a favore dei dipendenti – come le gite al mare e le serate di cinema, nel caso di Fantozzi – con la pretesa di occupare e possedere tutto il tempo dei propri sottoposti, non soltanto le otto ore contrattuali. Un rapporto asfissiante, a 360°, tra l’impiegato e l’azienda. Ed è proprio questo che genera la frustrazione e le disavventure del personaggio che tanto ci ha fatto divertire. Ora viviamo invece in una società liquida. C’è più spazio per l’individualità e meno imposizioni. C’è più libertà nei modi di agire. Possiamo parlare e fidanzarci con chi vogliamo, e scegliere come ricombinare le tappe del nostro percorso di vita. Ma è tutto più insicuro, più incerto.

Paolo Villaggio parla di società, cinema e comicità

Cosa ne sarà di noi?

Ma se mettessimo da parte, per un momento, l’aspetto demenziale e la comicità sciàsciona, all’italiana e solo apparentemente di basso livello dei film di Villaggio, noteremmo un aspetto sottovalutato e sorprendente. Il buffo, sfigato, ingenuo e disadattato Fantozzi, probabilmente, se la passava meglio di quanto potremo mai fare noi stessi, generazione di venti-trentenni attuali. Il ragionier Ugo aveva un contratto a tempo indeterminato. Aveva una moglie, Pina (che meriterebbe un capitolo tutto suo). Una figlia, Mariangela. Aveva una casa di proprietà e una macchina tutta sua, la mitica Bianchina. Aveva addirittura qualche collega-amico fidato, come il ragionier Filini. Quanti di noi possono dire altrettanto?

Insomma, i registi hanno saputo mostrare con chiarezza e con una potente vena critica – colta ed espressa in maniera perfetta da sceneggiatori e attori – gli aspetti spesso sottovalutati di questo nostro passato, che molti di noi – me compreso – non hanno neppure vissuto. Ma che sentiamo essere parte anche di noi, poiché il mito di personaggi come quelli ideati da Villaggio – che sono un dipinto di quegli anni – a loro volta hanno contribuito a formare le rappresentazioni sociali e gli stereotipi che oggi abbiamo sulla famiglia, sul lavoro, sulle aziende e sui rapporti tra impiegati. Ma anche sui conflitti sociali e i cambiamenti economici che hanno prodotto la Nazione – e forse la cultura – nella quale tuttora viviamo.

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