Passato il 1° Maggio, non si può non parlare delle lavoratrici vittime del Gender pay gap. Il tema è considerato uno dei più importanti nell’agenda del Governo Draghi e di quella della Commissione europea. Il quadro italiano lavorativo, in virtù della pandemia, è poco rassicurante: da febbraio 2020 a febbraio 2021 si sono persi 1 milione di posti di lavoro. Nel 2020 hanno perso il lavoro 312.000 donne. Un numero considerevole incrementato nel mese di dicembre 2020, con il 98% di nuove donne disoccupate, cioè 99.000 su un totale di 101.000 disoccupati.
Che cos’è il Gender pay gap?
Il Gender pay gap, letteralmente la differenza salariale retribuita tra uomo e donna, è un termine che intende il tasso di differenza economica degli stipendi sul posto di lavoro tra gli uomini e le donne. Spesso lo sentiamo nominare per via della sua attualità e anche perché è un tema molto delicato. Pertanto è necessaria un’adeguata analisi dello scenario reale.
Analizziamo i dati
Tenendo presente i dati riportati dal Global Gender Gap Report del WEF (World Economic Forum), l’Italia ha registrato un incremento del 6% nel 2020 in controtendenza con il 2019, anno in cui il nostro Paese è passato dall’80° alla 72°posizione mondiale. L’Italia è al 76° posto su 153 paesi nel mondo e diciassettesima nei venti paesi europei dell’area occidentale, davanti a Grecia, Malta e Cipro.
Stando ai dati Istat del 2018, il divario è del 2% nel settore pubblico mentre è del 17,7% nel privato. Secondo il 28/esimo rapporto sulle retribuzioni di ODM Consulting, il divario retributivo è più penalizzante tra gli operai (10,5%), seguito dal gap tra gli impiegati (10,4%), poi quello tra i dirigenti (8,5%) e infine il più contenuto tra i quadri (5,5%). Una donna guadagna meno di un collega maschio sia a parità di ruolo professionale che a parità di settore d’impiego: considerata un’analisi statistica condotta sul database di JobPricing, nel 77,8% dei casi gli uomini hanno retribuzioni superiori alle donne in tutti i settori professionali.
E in Europa…
Il divario retributivo di genere più elevato nell’UE, riguarda l’Estonia con il 21,7% mentre il più basso il Lussemburgo con l’1,3%; in Germania si è assestato al 19,2% e in Francia al 16,5%. Il tasso europeo del gender gap sta diminuendo: nel 2019 la retribuzione oraria lorda delle donne era in media del 14,1% inferiore a quella degli uomini nell’UE (fonte Eurostat). Le indagini considerano le imprese private e pubbliche con almeno 10 dipendenti. Esso è un fenomeno attuale che registra dei miglioramenti nei Paesi Europei, tuttavia in Italia necessita di un quarto di secolo per essere eliminato.
La legge Golfo-Mosca
La Legge Golfo-Mosca sulle quote di genere nei CdA, è entrata in vigore nel 2011. A seguito dell’entrata in vigore della Legge, gli organi sociali delle società quotate in borsa e delle controllate pubbliche, hanno dovuto rinnovarsi riservando una quota alle donne pari ad almeno 1/5 dei propri membri. Nei rinnovi successivi le donne rappresentate permangono nella misura di almeno 1/3. Tale legge è stata un passo in avanti nella riduzione del divario; infatti le donne nei CdA sono passate dal 6% al 36%.
Nel mese di dicembre 2019, con il passaggio dalla Camera al Senato del decreto fiscale collegato alla Legge di Bilancio 2020, la Legge Golfo-Mosca è stata prorogata inserendo alcune modifiche tra le quali un nuovo periodo di vigenza del vincolo e la “temporaneità” per sei mandati consecutivi anziché tre.
Quali sono gli obiettivi per il futuro?
Il 4 marzo la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha presentato la proposta di una direttiva sulla trasparenza salariale per garantire che nell’Unione Europea, donne e uomini ricevano un’identica retribuzione per uno stesso lavoro. La proposta adesso passerà al vaglio del Parlamento Europeo. È evidente che le aziende debbano cambiare passo e superare i pregiudizi culturali limitanti rispetto al tema del gender pay gap.
Boston Consulting Group sottolinea che la diversity è anche un beneficio: le aziende con almeno tre dirigenti donne hanno un aumento mediano del ROE (Return on equity) superiore di 11 punti percentuali in cinque anni rispetto a quello delle altre aziende come riportato dalla testata Digital4.biz. Conseguentemente, le aziende con almeno il 30% dei dirigenti donne hanno un aumento del 15% della redditività rispetto a quelle senza. In pratica, basta una sola donna in più nella leadership per aumentare il rendimento di una azienda da 8 a 13 punti base.
In conclusione occorre un cambiamento, è auspicabile procedere evitando le discriminazioni di genere; migliorare le politiche di welfare per assistere le donne in gravidanza, con misure di tutela della maternità da parte dello Stato.
È opportuno promuovere delle modalità di lavoro flessibile che incentivino la domanda delle donne con dei figli. La strada è ancora lunga; ma non è irraggiungibile…