Giovani lavoratori intervistati
Un insegnante, un fotografo e-commerce ed un’ergonoma cognitiva, cosa avranno in comune? Sono tutti giovanissimi lavoratori, intervistati per Ambasciator che ci hanno detto la loro rispetto alle professioni che svolgono, a come si sono formati ed al rapporto che c’è tra i più giovani e i meno giovani nei loro settori.
Antonio Volpicelli 26 anni, il più giovane insegnante della sua scuola

Antonio, come ti sei formato? La mi ambizione è sempre stata votata ad avere dei risultati in ambito letterario. Ho sempre nutrito questa velleità letteraria. Non ho ancora avuto la fortuna/il piacere di pubblicare niente, ma sono in dirittura d’arrivo nel completamento di due mie opere. Io, sarà perché mi è mancato il coraggio o forse perché non si può vivere di solo idealismo; ho dovuto pensare a come sostenermi. Ho pensato che le due cose potessero convergere: cosa fare concretamente con la lettura? Inevitabilmente c’è l’insegnamento. E devo dire che non lo disprezzo affatto, anzi. Alla fine mi sono reso conto che se non andavo in classe una mattina per qualche specifica ragione, comunque mi ritrovavo a leggere qualcosa circa l’argomento che avevo preparato per quella lezione, o a leggere in generale. Quindi alla fine insegno qualcosa che amo.
In realtà, non avevo mai pensato a questa eventualità e fui accarezzato dall’idea di insegnare al quinto anno di liceo, con la conoscenza della professoressa di filosofia. Dopo aver conseguito il diploma scientifico, mi sono laureto in storia medioevale. Dopo due mesi dalla laurea, fui chiamato per la mia prima supplenza a Milano; da lì ho subito iniziato a lavorare e da allora non ho più smesso. Quello che ti posso dire è che già solo le supplenze ti consentono di condurre una vita dignitosa, pur essendo appunto solo un precario.
E dopo gli studi, poi cosa è successo? Ad oggi, sono quasi tre anni che insegno tra supplenze varie. Devo ammettere, al contrario di ciò che si crede, che questo è un lavoro che porta via molte energie e tempo. La scuola ha il suo palcoscenico che è la classe, ma ha anche il suo retroscena, fatto di correzione dei compiti, l’organizzazione delle lezioni, i consigli, i colloqui.
Io poi sono l’insegnante più giovane del corpo docenti della mia scuola, ho 26 anni. Ho notato, in virtù di ciò, un approccio differente, quasi abissale, che separa me dai miei colleghi. Non mi riferisco ad un approccio didattico, ma al modo di intendere il lavoro. Loro si pongono nei confronti della professione come una missione; io credo che nessun lavoro possa essere definito una missione. Nessuno è deputato a salvare nessuno. Io sono pagato per insegnare ed educare, non per essere un missionario. Smettere di presentarsi così agli altri lavoratori, potrebbe forse svincolarci dalla visione di “servi”, quasi alla stregua di un babysitter.
Come è stato l’impatto nelle città dove hai insegnato? Qui a Firenze l’impatto è stato molto positivo, con il corpo docenti, con i dipendenti e con gli alunni stessi. Tutti rivelatisi disponibili, aperti e pronti all’aiuto a differenza del mio impiego a Milano, dove avevano del riserbo nei miei riguardi. Ti racconto un aneddoto accaduto nella vecchia scuola. Era il mio primo giorno e il corpo docenti voleva che accompagnassi gli alunni della mia classe nella gita che si sarebbe tenuta l’indomani; io mi sono chiaramente rifiutato visto che non li conoscevo, non riuscivo nemmeno a tenerne a mente i volti. Beh, mi hanno tacciato come nullafacente.
C’è arrivismo nel settore dell’insegnamento? No, non c’è arrivismo. In generale, l’insegnamento diviene quasi sempre un ripiego.
I tuoi alunni come vivono la tua giovane età? I miei alunni hanno sempre confusione quando mi incontrano. Mi vedono tanto grande da poter stare in cattedra, ma allo stesso tempo abbastanza piccolo. A volte quando mi conoscono per la prima volta, cercano un po’ di capire indicativamente la mia età, provando a categorizzarmi con domande tipo “ma lei guida?” “è sposato?”; e la cosa in effetti è molto simpatica! Come se per loro ci fossero delle tappe a limite di scadenza, quindi se non sono sposato non potrò essere certo troppo vecchio!
Che consiglio daresti a chi si sta per cimentarsi in questo mestiere? Non programmare mai troppo, lascia anche che sia la lezione a creare la lezione. Soprattutto con le mie materie, una parola può portare a molti spunti. Loro poi sono molto reattivi, forse sarà fortuna, so bene che dipende molto da classe a classe. Di sicuro ha influito la mia giovane età e che quindi fruiamo degli stessi stimoli.
Poco fa, ad esempio, abbiamo usato i meme nella stesura di un progetto per raccontare eventi storici.
Un altro consiglio che posso dare, è quello di essere severi; entrare in classe come Sevrus Piton il primo giorno, poi successivamente si può smollare un po’, ma i primi 3 o 4 giorni sono cruciali. I ragazzi hanno bisogno di strutture e di conoscere i limiti sin da subito. Poi, come dice mia madre, lei stessa insegnante: “gli alunni di solito si affezionano ai prof più severi!” (sorride)
Pandemia beh su questo punto c’è poco da dire, siamo stati sotto i riflettori da mesi tra DAD e la gag delle sedie a rotelle. Sicuramente quello che si percepisce da dietro la cattedra, è che la didattica a distanza sta mettendo a dura prova gli studenti in termini di attenzione, ricettività e creatività.
Marco Barile 31 anni, fotografo e-commerce

Marco, raccontaci un po’ dei tuoi studi! Mi sono laureato all’accademia di Belle Arti di Napoli, all’epoca c’era il triennio di fotografia, cinema e televisione. Infatti la mia tesi è stata sul cinema. A proposito di tesi, hai portato un tuo lavoro cinematografico se non mi sbaglio? Sì, ho portato il mio primo cortometraggio scritto e diretto da me, intitolato “La vita magra”; questo lavoro era la parte pratica da affiancare alla mia tesi che verteva sulla mia generazione, i millennials. La delusione verso se stessi e verso la nostra società, la disistima verso di essa, ecco e l’incapacità di percepire le reali opportunità di cui disponiamo e di prendersi le responsabilità di sceglierle. Una sorta di autodenuncia, anche un po’ autobiografica. Dopo ho fatto anche l’Ilas e vari work shop, ho avuto anche esperienza come fonico.
Passiamo al tuo lavoro, ci racconti cosa fai? Si, io mi occupo di fotografia e-commerce. La fotografia e-commerce è la fotografia di prodotti che verranno venduti online; nel mio caso parliamo del campo della moda. Ora mi sono attestato in un team di fotografi, (composto da una responsabile di fotografia, un’altra fotografa ed una stylist), che si occupa principalmente di fotografia e-commerce. Il mio ruolo non si ferma alla fotografia, ma va a finire anche nella post produzione e nell’assistenza al set e a tutto il flusso di lavoro.
Definiresti il tuo lavoro come un lavoro precario? Allora, non in senso stretto. Il mio lavoro può essere inserito in quelli della libera professione, si lavora con partita iva, con prestazioni occasionali e contratti simili. Raramente si viene assunti per lavori di questo tipo. Quindi si è vero, è un lavoro abbastanza precario, ma non il suo settore. Il commercio online è inarrestabile, proprio perché andiamo verso una sempre maggior digitalizzazione, che ha ricevuto una forte spinta anche dalla pandemia. Il mio lavoro deve essere smart, efficace e veloce, caratteristica propria della vendita online.
Banalmente, si può pensare che possa essere un ripiego questo tipo di lavoro, rispetto ad altri settori, forse più artistici, della fotografia. Tu cosa ne pensi? Allora, io non mi sono mai considerato un artista come fotografo.
Di certo però ho approcciato alla fotografia, nei miei studi, come forma d’arte. Quello che poi ho capito negli anni, è che esistono varie declinazioni della fotografia. Nell’ambito della fotografia e-commerce però, si sfiorano molto certi livelli artistici, pur non essendo fotografia artistica. Anzi per me, soggettivamente, alcune volte li si raggiugono o addirittura superano. Soprattutto per la fotografia still life (la fotografia di oggetti inanimati). Quando parliamo dello still life, parliamo di vere e proprie tele, è bella da vedere ed è curata (chiaramente ha la sua accezione industriale, è bella da vedere e da vendere); ma c’è sicuramente molta arte lì.
Quindi ti vedi molto a fuoco in questo campo, ma vorresti cimentarti anche in altro/continuare altre cose tue? Si può dire che finalmente sto facendo quello che volevo fare, anche se non è proprio totalmente ciò che volevo fare. Ecco, per vedermi a fuoco al 100% su tutto quello che vorrei fare, essendomi comunque occupato di questo nella tesi; vorrei continuare a dedicare parte delle mie energie al mondo della cinematografia. Però si, dal punto di vista del lavoro con la fotografia, ad oggi mi vedo molto inquadrato!
Visto il tema dell’intervista, ti chiedo, questo è un lavoro da giovani e per giovani o sbaglio? Guarda si, ci sono anche persone di un’età maggiore ad esempio nelle figure dei responsabili/capi, poi siamo tutti molto giovani. Si cerca comunque di fare un ricambio, parti come collaboratore in un gruppo per poi divenire un domani tu stesso responsabile di un gruppo. Ci sono comunque alcuni fotografi di moda o di e-commerce sessantenni, ma si parla della minoranza. Anche perché stiamo parlando di un mondo così “anti-boomer” (eheh) che per forza di cose a un certo punto va rifornito.
Pandemia.. Guarda dal punto di vista individuale, paradossalmente mi ha dato modo di uscire di casa nel periodo di reclusione totale; visto che è un lavoro che non puoi fare da casa, post produzione a parte. Ma di sicuro sul set, come in tutti i lavori che non si sono potuti trasformare in smart working, si sono adottate le dovute precauzioni.
Giusy D’Angelo 26 anni, tra i giovani lavoratori, è un’ergonoma cognitiva

Allora Giusy, cosa è questa ergonomia cognitiva? Cosa fa un ergonomo cognitivo? Allora, è colui che si occupa dell’esperienza dell’utente diciamo mettendo in pratica quelli che sono i principi della User Experience; crea un’esperienza a misura d’uomo per chi va ad utilizzare non solo dispositivi elettronici (come può essere una lavatrice piuttosto nel forno a microonde?). Nel XXI secolo, invece, soprattutto quelle che sono applicazioni web e siti web. É una laurea molto innovativa in un corso di laurea come psicologia, visto che solitamente si pensa al mondo dell’Accademia della Belle Arti, a scuole di grafiche e design.
Ma se ci pensi ha senso, specialmente in un corso di laurea come quello che è stato il mio dal taglio cognitivo, perchè un ergonomo cognitivo può capire meglio rispetto ad un informatico o a un grafico, quelli che sono i processi percettivi, di memoria, di attenzione e le scelte decisionali, che comunque concorrono quando si utilizza uno strumento. L’ergonomo va dallo studio sull’utilizzo di dispositivi, al costruire un progetto applicativo dei nudge (ovvero “la spinta gentile“, invogliare le persone a modificare i loro comportamenti); un concetto di economia comportamentale e psicologia che si applica in diversi ambiti. Esempio nella segnaletica stradale: le strisce pedonali in 3D presenti in alcuni paesi europei. Quello è un classico esempio di come l’ergonomo sia perfettamente in linea con gli studi della psicologia cognitiva (percezione, attenzione).
Come ti sei formata quindi, ti sei laureata in psicologia? Ho studiato psicologia alla triennale, per poi prendere una laurea specialistica in ergonomia cognitiva al Suor Orsola Benincasa (uno dei pochi corsi di laurea presente in Italia). Poi ho fatto il tirocinio durante il percorso di studi al centro di ricerca dell’università il quale si occupa di tecnologia.
Ho studiato il rapporto che i bambini piccoli hanno con i robot. Infatti è stato poi la relazione human-robot nello specifico bambino robot e come i bambini vedevano appunto la figura di un robot e tecnologia, ad essere oggetto della mai tesi di laurea. Ho infatti programmato, con l’aiuto di studenti di ingegneria, un robottino made in Francia, che lì viene utilizzato per studiare l’autismo, al fine di capire la reazione che i bambini potessero avere con un robot umanoide.
Poi ho fatto l’Apple Academy a Napoli e mi sono formata sempre nell’ambito della User Experience in senso stretto. Anche perché la User Experience nasce alla Silicon Valley, nel mondo Apple. Quindi formarsi come ergonomo cognitivo, un ambito che viene dalla Apple, vuol dire che ti stai formando nelle origini. Da loro è nato il paradigma dell’ergonomia cognitiva, del mettere l’uomo al centro del processo creativo e progettuale di un prodotto.
Conosco quindi quelli che sono i paradigmi della User Experience; insomma so come improntare un progetto a misura d’uomo e come portare l’uomo al centro di un progetto che è costruito per lui.
Dopo ho fatto un corso che mi sta portando oggi a lavorare nell’ambito della Customer Experience che non è altro che una User Experience un po’ più dedicata ai prodotti di consumo. Si studiano quindi i consumatori ultimi di un prodotto che può essere un applicativo web oppure un applicativo per mobile. Prima di entrare in questa azienda, ho fatto un corso per lo stage che spaziava dalla programmazione informatica back-end (le funzionalità di quel sito) alla programmazione informatica front-end (la veste grafica di quel sito); i quali sono sempre principi dell’ergonomia. Insieme alle figure del back-ender e front-ender, c’è l’ergonomo che studia come il fruitore finale del sito andrà ad utilizzarlo. Quindi: quali sono gli argomenti più salienti per l’utente? In che posto devono essere posizionate i bottoni e le info per facilitarlo?
Gli specialisti con cui ti trovi a lavorare sono quindi grafici, informatici, ingegneri. Come si svolge la vostra interazione lavorativa? Ma diciamo che il grafico divento io alla fine, perché volente o nolente di solito ci si trova ad incarnare anche la figura del grafico. Poi io arrivo con un diploma di grafico pubblicitario, quindi ho già una bella base.
La mia figura prende parte al progetto dall’inizio, quindi nella fase di ricerca, nell’analisi dei requisiti nella ricerca di clienti, nello stilare quelli a cui vuoi indirizzare l’applicativo, nel costruire la mappa del percorso con quella applicativo; dalla costruzione di carta e matita di quella che è l’applicazione che verrà poi usata e dagli utenti che verranno valutati e dopodiché verrà costruita la veste grafica su questi schizzi. Solo dopo gli ingegneri inizieranno a progettare l’applicativo web. Ma comunque la mia figura di supporto segue dall’inizio il progetto fino a quando non viene rilasciato. Creiamo proprio il prototipo prima che arrivi nelle mani di un ingegnere informatico che lo svilupperà.
É un settore su cui si sta puntando/investendo molto qui? Diciamo che in Italia le aziende non investono molto su questa figura (pensa che in America questo settore va fortissimo ed il mio ruolo è strapagato). Nel prossimo futuro non si potrà prescindere dall’investire di più in quest’ambito, perché tutto si sta digitalizzando e figure come le nostre permettono di avere un prodotto più efficiente che nel 99% dei casi arriverà all’utente e potrà essere utilizzato senza tornare indietro alla casa produttrice, perché l’utente viene proprio insediate all’interno del prodotto.
Ci sono invece delle persone meno giovani? Ci sono persone meno giovani di me, sulla cinquantina, ma sono approdate in questo mondo successivamente, partendo da un’altra formazione. Però alla fine sono tutte figli di uno stesso ambito, ovviamente con sfaccettature diverse. Diciamo che è questo il gap generazionale, perché comunque un cinquantenne nell’ottica generale è giovane, però chiaramente in un ambito così fresco, 50 anni sono 70. Noi non lo percepiamo questo smacco, perché sono adulti mentalmente molto aperti e molto lontani dall’Italia e dall’Europa in generale, e di certo deve essere così. Per questo lavoro c’è bisogno per forza di un approccio sempre sul pezzo, innovativo e fresco.
Pandemia Tutto è rallentato. E’ cambiato tutto anche perchè il percorso alla Apple Academy che stavo facendo proprio l’anno scorso, si è interrotto a marzo. L’esperienza non è stata né positiva né negativa, si è solo molto appiattita, perché l’esperienza della Apple Academy oltre a essere formativa, è molto divertente da vivere in sede.
Per il lavoro invece, va benissimo perché comunque io mi sento con persone a Milano piuttosto che a Roma; oppure anche dall’altra parte dell’Europa. Quindi stare a casa o in ufficio non avrebbe fatto molta differenza.
