Eroi di una guerra che non appartiene a loro
In questi giorni riceviamo, come pugni nello stomaco, le immagini dei bambini coinvolti nel conflitto in Medio Oriente, soli, terrorizzati, spaesati. Davanti a queste immagini ci sentiamo più piccoli di loro e impotenti. Non sappiamo se condividerle a nostra volta le immagini strazianti di queste guerre, magari per sbattere davanti a tutti l’orrore di cui è capace l’essere umano, di cui forse saremmo stati capaci anche noi se fossimo nati nella parte “sbagliata” del mondo.
E forse in una società in cui ognuno cura il suo pratino, nella quale ci si sente arrivati quando si ha il suv più grande del vicino o il fondoschiena più pompato delle altre mamme che incontriamo fuori la scuola dei nostri figli, varrebbe la pena di proiettarle per strada quelle immagini, così che tutti potessero partecipare all’orrore vissuto dagli altri e magari temere che un giorno al loro posto potremmo esserci noi. I napoletani poi, scavando un po’ nella memoria, potrebbero ricordare che una guerra come quella tra Israele e Palestina per la contesa di un territorio, per la liberazione della propria terra, noi l’abbiamo vissuta sulla nostra pelle.
Dopo la seconda guerra mondiale, quando i tedeschi continuavano a imperversare in Italia, razziando e uccidendo benché ormai sconfitti, Napoli si ribellò e nelle sue Quattro Giornate vide il suo popolo orgoglioso combattere con quel poco che aveva per liberarsi.
E tra gli eroi di quelle giornate gloriose e dolorose c’è un bambino, ricordato per il suo contributo coraggioso contro il nemico. Un bambino che morì per la sua città ma sempre vivo nei ricordi dei napoletani, soprattutto dei più anziani, che amano raccontare le sue gesta. Così anche mio nonno, che più di una volta mi ha raccontato di lui.
Era il settembre del 1943, l’Italia aveva firmato l’armistizio e la resa incondizionata agli Alleati. Iniziò così la campagna d’Italia e della Resistenza per la liberazione contro il nazifascismo. Le forze militari italiane, a Napoli e in tutto il Paese, si ritrovavano completamente allo sbando per la mancanza di ordini dai comandi militari. Il controllo sulla popolazione venne lasciato in mano all’esercito tedesco. I militari tedeschi obbligarono i napoletani a consegnare qualsiasi arma di cui fossero in possesso ed imposero un regime di repressione durissimo e violento. I napoletani avevano già subito la sofferenza non di una guerra, ma ben di due guerre, la Prima e poi la Seconda che fu combattuta fuori dalle trincee riducendo il Paese in un cumulo di macerie. I tedeschi in casa propria, pur consapevoli della sconfitta o forse ancora più rabbiosi per la resa, erano diventati più violenti di quando non lo fossero stati in passato.
Fu così che a Napoli iniziarono a crearsi i presupposti per l’insurrezione popolare che passò alla storia come “Le Quattro giornate di Napoli” durante le quali la popolazione civile riuscì a liberare la città dall’occupazione delle forze tedesche con orgoglio e coraggio. La rabbia, la mortificazione, il disprezzo per l’oppressore crebbero al punto tale da non poter essere più controllate. All’ennesimo rastrellamento della popolazione civile da parte dei tedeschi, il 27 settembre, cinquecento uomini armati aprirono il fuoco contro i soldati tedeschi dando inizio ai combattimenti. Li seguirono in tanti e tra questi Gennarino che a 11 anni salutò sua madre e i suoi fratelli e andò a combattere per la sua città.
Ma ve lo immaginate un bambino di 11 anni che saluta la madre sotto l’uscio di casa dicendo “Mammà, vac ‘a fa’ a guerra!” No, non si può immaginare infatti e se davanti a questa immagine il cuore di chiunque si stringe, quello di una madre sanguina. Gennarino lasciò la sua casa di bambino divenuto già uomo e partecipò alla guerra contro i tedeschi in via Santa Maria degli Scalzi dove viveva con la sua famiglia, dapprima rifornendo di munizioni i patrioti e poi impugnando egli stesso le armi.
La storia racconta che fosse davanti ai carri armati tedeschi, in piedi, sprezzante della morte, lanciando bombe a mano contro i nemici. La storia racconta che davanti a quel bambino minuto il nemico si fermava, arretrava. Era per le granate però, non per il fatto che davanti a quei mostri di ferro ci fossero Gennarino e altri scugnizzi perché in guerra funziona così, il nemico non ha età, connotati, madri, lo uccidi e stop.
Gennarino combatté fino a quando una granata tedesca lo colse in pieno uccidendolo ma rendendolo una leggenda ed un esempio di coraggio che i napoletani non dimenticheranno mai. Chissà cosa passa nella mente di un bambino che a soli 11 anni imbraccia un’arma, lancia granate, affronta un carro armato sapendo che la morte è inevitabile. Coraggio, incoscienza oppure entrambe. Forse quello che si vede in guerra, le sirene che annunciano le bombe, la città crollata intorno a sé, i morti in strada, i rastrellamenti dei nemici, la fame, l’innocenza rubata da qualcosa che non si può fermare neanche facendo ricorso alla fantasia di un bambino, fanno diventare uomini con cento anni di vita nel cuore.
Gennarino infatti era un piccolo uomo che a 11 anni aveva già vissuto più vite di quante ognuno di noi oggi potrebbe aver fatto. Questo piccolo uomo è uno dei simboli di cui la nostra città deve andare fiera e ci deve ricordare che nessuna guerra, per quanto lontana geograficamente, non ci appartiene. Soprattutto perché le guerre sono sempre qualcosa che coinvolge i bambini, spesso uccidendoli, e quando muore un bambino insieme a lui perisce il futuro, di tutti noi.
Quando mio nonno terminava il racconto di questo piccolo eroe, con gli occhi un po’ lucidi si diceva rammaricato per il fatto di non sapere dove Gennarino riposasse, se lo avesse saputo sarebbe andato a portargli un fiore e un bacio.
Per un’incredibile coincidenza, il giorno dello scoppio del nuovo conflitto in Medio Oriente, mentre cercavo notizie in rete, mi è apparso un articolo su Gennarino Capuozzo nel quale si annunciava il ritrovamento della sua lapide che si trova al cimitero monumentale di Poggioreale a Napoli, loculo 62. Sono stata contenta e ho promesso a mio nonno che andrò presto a portarglieli io quel fiore e quel bacio a Gennarino, anche se credo che loro si siano già ritrovati chissà dove. Dopo un po’ mi è venuto in mente che il 62 nella Smorfia napoletana significa “’o muort accise”, il morto ammazzato. Ho pensato che a Napoli anche il destino fa ironia, pure sui fatti più tragici, anche sulla guerra.