Era rovente l’aria a Bologna.
La stazione, quella rovente mattina, era più popolata del solito. E non solo perché era un sabato, il primo d’agosto. I treni erano in ritardo e in tanti, giunti nel capoluogo emiliano, si dovettero rassegnare a coincidenze saltate e a corse successive da attendere con un sospiro. Italiani, tedeschi, giapponesi, spagnoli, francesi.
C’era chi andava in vacanza e chi tornava.
C’era chi stava attraversando la penisola per andare a nord, dove l’aspettava un lavoro. C’era chi invece tornava verso casa, dopo aver tentato di trovarsi un’occupazione all’estero. E poi c’era chi ci lavorava alla stazione, ferrovieri, tassisti, impiegati, le dipendenti della CIGAR, la società che gestiva il bar ristorante.
I viaggiatori cercavano invano refrigerio nel bar ristorante, sotto le pensiline, nella sala d’aspetto di prima classe. E in quella di seconda.
Fu lì che qualcuno entrò, individuò un tavolino a una quarantina di centimetri da terra, proprio a ridosso del muro portante rivolto al primo binario, e vi appoggiò una valigia pesante, pesantissima, ventitré chilogrammi circa.
Nessuno doveva aver attenzione allo sconosciuto, non il ragazzino che leggeva un fumetto né una mamma giovanissima che viaggiava con la figlioletta di tre anni.
All’improvviso a squarciare la quotidianità un boato e poi solo urla, macerie, lacrime e sangue. L’esplosione, che si sentì nel raggio di molti chilometri, causò il crollo di un’ala intera della stazione, investendo in pieno il treno Ancona – Chiasso in sosta al primo binario e il parcheggio dei taxi antistante.
Alle 10,25 i superstiti della strage di Bologna hanno raccontato di aver sentito una fortissima esplosione e poi solo macerie, polvere e pianti: un ordigno a tempo, del peso di 23 kg composto da T4, tritolo e gelatinato venne fatto esplodere, causando il crollo di tutta l’ala ovest, la morte di 85 persone e la mutilazione di oltre 200.
L’esplosivo era stato posizionato su un tavolino a una quarantina di centimetri da terra con lo scopo di aumentarne l’effetto che già di per sé sarebbe stato devastante.

I primi soccorritori non ebbero dubbi: era stata una bomba, impossibile formulare ipotesi diverse a causa di un forte odore di polvere da sparo bruciata. Tuttavia, altre tesi vennero audacemente proposte.
Come per la bomba che esplose il 12 dicembre 1969 a Milano, all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana facendo diciassette morti e ottantanove feriti, si parlò di una caldaia saltata per aria.
Fu questa la versione che si opponeva a quella di un attentato, l’ennesimo di una lunga scia che pareva essersi arrestata alla metà degli anni ‘70.
Lo stesso Prefetto di Bologna, Riccardo Boccia, lo affermò in una delle prime dichiarazioni ufficiali. “Si parla… Tutte le ipotesi sono possibili. La prima voce è questa: è stata una caldaia del bar ristorante o qualche bombola a gas”, disse.
A smentirlo, quasi in tempo reale, giunse una telefonata alle 12.41 al Gr1 della RAI.
A chiamare era un funzionario del Ministero dell’Interno, che preferì non rivelare le sue generalità. “Probabilmente si tratta di un’esplosione provocata da un ordigno dinamitardo”, disse l’anonimo funzionario del Viminale, che definì l’ipotesi dell’incidente “priva di fondamento perché l’esplosione è stata troppo violenta e troppo improvvisa”.
E aggiunse, sconfessando all’apparenza quello che aveva appena detto Boccia: “Anche lui, il Prefetto, ha questa impressione, però non si è ancora potuto accertare perché lì è pieno di macerie, è tutto sotto sopra, è tutta una confusione indescrivibile. Quindi le indagini vere e proprie non si sono potute svolgere con la dovuta attenzione”.

Nel frattempo Bologna si mobilitò tutta
La gente si riversò in piazza Medaglie d’Oro, dove c’era e c’è ancora oggi la stazione, scavò a mani nude, diede una mano a vigili del fuoco, poliziotti, carabinieri per recuperare i superstiti.
Ci fu chi già alla guida dell’autobus 37 si rimise al volante: per i morti, troppi, non si potevano usare le ambulanze. Quelle andavano riservate ai feriti, ancora più numerosi, e allora quell’autobus divenne un carro mortuario che caricò le vittime e le portò agli obitori della città, prima a vetri scoperti, ma dopo il primo viaggio con lenzuola bianche che oscuravano la vista dall’esterno.

I tassisti, quel giorno e nei successivi, trasportarono i parenti di vittime e feriti in giro per la città senza chiedere loro i soldi della corsa, un ristoratore si diede da fare per rifornire di cibo e acqua a chi lavorava alla stazione, gli hotel si prepararono ad accogliere chi inevitabilmente sarebbe arrivato per riprendersi i propri morti e girare gli ospedale alla ricerca di un parente ricoverato.
L’allora Presidente del Consiglio del Ministri, Francesco Cossiga, a Roma parlò subito di “strage fascista”, salvo poi smentirsi da sé anni dopo.
Il vertice dei Servizi Segreti nicchiò su quell’ipotesi, mentre cominciarono a fiorire i riferimenti a “piste internazionali” che guardavano alternativamente alla DDR (Germania dell’Est), ai traffici d’armi palestinesi o al sotterraneo conflitto coi libici, a seconda dello schema interpretativo utilizzato.
Tuttavia, nessuna di queste teorie ha mai trovato la consistenza probatoria per essere presa concretamente in considerazione per un dibattimento istruttorio.