Il racconto di quel maledetto giorno e del “tempo” in cui un bambino costruiva il “suo” mondo con Massimo Troisi
Ero poco più di un bambino: alto, paffutello, con una indecifrabile coltre di capelli ricci. L’estate cominciava a bussare alla porta della mia fanciullezza e, chissà per quale motivo, ancora oggi ricordo il sapore dell’aria di quel giugno 1994. Tutto mi appariva limpido: i fiori esposti ad ogni angolo, le finestre spalancate per consentire l’ingresso della luce che tutto vivificava; persino gli occhi curiosi di un ragazzino già incline a “perdersi” nei meandri di un mondo lontano, perennemente asintotico e che, a distanza di decenni, sta ancora cercando – invano – di afferrare.
Con l’innocenza cinica e feroce di quegli anni, trascorso l’orario scolastico ed “espletato” con ansimante celerità lo studio domestico e quotidiano, passavo il resto della giornata ad ascoltare musica; a guardare film in bianco e nero.
Solo il richiamo di qualche giovane amico era capace di farmi accantonare quel piccolo mondo che, tra un pensiero e l’altro, mi andavo costruendo con disarmante naturalezza. Poco importavano i rimbrotti delle maestre per quella strana propensione ad “estraniarmi” improvvisamente; a malapena riuscivo a tollerare le interminabili indicazioni su come svolgere un problema di matematica. Troppo impegnativa era la strutturazione del mio mondo ed io ero un architetto impaziente.
Ancora fiori, finestre aperte a metà e film che, nella mia collezione, cominciavano a diventare a colori.
Ecco un susseguirsi di sorrisi e roboanti risate dinanzi a Totò, ad Eduardo delle commedie di Scarpetta; le prime improvvisate ed approssimative imitazioni di Sergio Bruni. Mi accorgevo, giorno dopo giorno, di avere una sensibilità diversa ed orientata verso orizzonti diversi, se confrontati con quelli dei miei amici. Ricordo con una certa tenerezza il tentativo maldestro di conquistare il cuore di una mia compagna di classe con una poesia di Salvatore Di Giacomo, recuperata da un vecchio libro di mio nonno. Eppure, sentivo – prepotente – l’esigenza di alimentare questa mia sensibilità ed “incontrai”, attraverso una VHS, lui: Massimo Troisi.
4 giugno 1994, il giorno dell’addio
I capelli di Massimo, la malinconia dei suoi occhi, la sua voce mite, velata e squillante, mi annichilivano; mi ponevano dinanzi ad un incanto fatto di carne e suoni, di piccoli gesti e frasi mai banali. Io volevo essere come Massimo, volevo ragionare, “parlare”, gesticolare come lui e volevo farlo “naturalmente”. Nessun processo di iniziale “spersonalizzazione” – niente di tutto questo -; ma imparare a costruire questo mio mondo come faceva un poeta, con la stessa autoironia, con la stessa, immancabile nostalgia.
Massimo diventava, quotidianamente, uno dei perni su cui fondare il mio castello; lontano da una realtà – lo capii subito – che non poteva essere di soli balconi fioriti e di luce. Quel 4 giugno 1994 la notizia della scomparsa di Troisi mi fu riferita con la semplicità di chi crede d’essere al mondo solo perché ci si nutre e si lavora. Eppure non piansi: una sorta di strana consapevolezza mi rassegnava all’idea che quel viso scarno, quella voce tiepida, erano destinati a progetti più “alti”. No, non piansi quel maledetto 4 giugno 1994, ma capii, dopo ore di silenzio e di innocenti domande.
Soltanto un anno dopo, alla fine de Il Postino, che termina proprio con la morte di Mario Ruoppolo, il protagonista, le lacrime inondarono fiumi di carta e la penna invocò alla mia mano destra di scrivere su un pezzo di giornale, che ancora conservo, la più banale e straziante delle frasi: “Massimo, grazie…”.
“Più che un attore, è un angelo…”
Scrivere dell’attore, poeta, regista, filosofo, è ormai stucchevole: molti i nomi grandi che hanno analizzato, sapientemente, la sua infinita genialità, perché aggiungere altro? Massimo Troisi è il rifugio; il riparo dalla faciloneria di maniera, dalla banalità del quotidiano e non merita fiumi di elogi che sanno di formalismo e che mai avrebbe sopportato; Massimo “più che un attore, è un angelo…”, secondo la definizione di Philippe Noiret, il Neruda de Il Postino; è il ricordo imperituro di quella personale innocenza che riaffiora quando, ancora oggi, mi dedico alla costruzione del mio mondo, mattone dopo mattone, poesia dopo poesia:
“Massimo, grazie…!”.