Napoli: luci e ombre di una città immortale

Come alcuni scrittori, italiani e stranieri, hanno descritto l’anima di Napoli

Tantissimi sono gli scrittori del passato, italiani e stranieri, rimasti affascinati, colpiti, rapiti dalla bellezza e peculiarità di Napoli. Iniziamo insieme un viaggio attraverso alcune opere di scrittori che hanno visitato e vissuto Napoli, e che nei loro libri hanno raccontato e descritto la città da punti di vista diversi. Le loro testimonianze sono e saranno memoria di una città dai mille volti.

Boccaccio e il legame con Napoli

Boccaccio, una delle figure più importanti nel panorama letterario europeo del XIV secolo, ha trascorso la sua intera adolescenza, a partire dal 1327, nella gloriosa Napoli del Trecento. Nella sua opera più importante, il Decameron, raccoglie una serie di novelle tra le quali diverse sono ambientate proprio a Napoli.

L’influsso della città non si condensa solo in questa straordinaria opera, anche nel libro Filocolo, lo scrittore, dà grande importanza alla presenza della tomba di Virgilio a Napoli, come segno della continuità classica. Ed ancora ritroviamo descrizioni napoletane nell’Elegia di Madonna Fiammetta e in varie Epistole tra le quali è presente una lettera scritta in lingua napoletana. In questa epistola, indirizzata a Franceschino dei Bardi residente a Gaeta, Boccaccio informa il destinatario che è divenuto padre di un figlio maschio, partorito a Napoli dalla sua amante Machinti. Lettera importantissima, perché è l’unica testimonianza di un intellettuale fiorentino che scrive cercando di imitare il linguaggio napoletano.

Facimmo adunqua, caro fratiello, a saperi, che lo primo juorno de sto mese de Deciembro Machinti filliao, e appe uno biello figlio masculo, cha Dio nce lo garde, e li dea bita a tiempo, e a biegli anni. E per chillo cha ’nde dice la mammana cha lo levao, nell’ancuccia tutto s’assomiglia allu pate“.

Il ritratto di Napoli che Boccaccio traccia nelle proprie opere, non si limita soltanto ad una nitida descrizione delle strade, ma anche della quotidianità e dei vivaci personaggi che vi si potevano incontrare; l’autore si sofferma a riportare i dialoghi e le discussioni, le urla e le atmosfere di una Napoli misteriosa e talvolta tetra.

Napoli: la città antica a <<occhio nudo>> di Renato Fucini

Nel 1878 Renato Fucini (noto anche con lo pseudonimo di Neri Tanfucio), scrittore e poeta toscano, pubblica Napoli a occhio nudo.

Lo scrittore osserva Napoli e dintorni a “occhio nudo“. Ferma con la scrittura i colori e le ombre delle immagini.
Con questa opera Fucini non si occupa delle classi dirigenti e dell’alta camorra, ma il suo silenzio è un vero atto di accusa contro coloro che avevano nelle mani le sorti della città e dei poveri. Egli investiga, invece, il groviglio della bassa camorra, sottolineando la paura che la malavita organizzata incuteva alla plebaglia e l’autorità che le veniva riconosciuta da quanti subivano soprusi provenienti da altri. Infine, per evitare facili illusioni, propone di distinguere il singolo camorrista dalla camorra: l’uno identificabile e perseguibile, l’altra impalpabile e sfuggente.

Dopo un certo tempo sarà anche annunziato a grandi lettere: — La camorra è estirpata. — Nossignori, non vi crederò.
I camorristi hanno polsi e perciò si possono ammanettare; hanno corpo e figura e perciò si possono imprigionare e deportare, ma la camorra non si ammanetta, non si carcera, né si deporta”.

Matilde Serao: Il ventre di Napoli

Matilde Serao, nata in Grecia nel 1856 da una famiglia di esuli antiborbonici, è la giornalista che meglio di chiunque altro è riuscita a raccontare Napoli e le sue mille sfaccettature. Il ventre di Napoli, pubblicato dai fratelli Treves nel 1884, è l’opera capitale della scrittrice: una vera e propria autopsia della città. Un viaggio introspettivo capace di sventrare l’animo dei napoletani, nel tentativo di svelarne la sua più remota intimità.

“Ascoltate un poco, quando una operaia napoletana nomina i suoi figli. Dice: le creature, e lo dice con tanta dolcezza malinconica, con tanta materna pietà, con un amore così doloroso, che vi par di conoscere tutta, acutamente, l’intensità della miseria napoletana“.

L’opera narra un’epidemia di colera che si abbatte su Napoli e le condizioni in cui il popolo partenopeo è costretto a vivere. Si tratta della descrizione di un vero e proprio ventre dove tutti sono mescolati a tutto, dove scarseggia l’igiene e la pulizia. Quando l’epidemia è passata, il ventre deve essere ripulito. Matilde Serao narra di quelli che sono i piani di risanamento per la città, senza però tralasciare gli usi e i costumi dei partenopei; la loro arte di arrangiarsi, di sopravvivere, la passione per le miscredenze e il gioco del lotto.

“Il popolo napoletano, che è sobrio, non si corrompe per l’acquavite, non muore di delirium tremens; esso si corrompe e muore pel lotto. Il lotto è l’acquavite di Napoli”

La giornalista esamina scrupolosamente ogni strato della città, abitata da un popolo che non si arrende mai; che si rialza dopo un’epidemia di colera e che è sempre pronto a rimettersi in gioco nonostante sia destinato alla speranza e al caos.

“Questo ricco sangue napoletano si arroventa nell’odio, brucia nell’amore e si consuma nel sogno

Freddo a Napoli di Italo Calvino: la città <<ignuda e seria>>

Italo Calvino, uno dei narratori italiani più importanti del secondo Novecento, giunse a Napoli alla fine del novembre del 1948 e trovò, nonostante lo stereotipo diffuso da Libero Bovio del “paese d”o sole” in tutte le stagioni, una città intirizzita dal freddo. Da questa situazione metereologica trae spunto il racconto descrittivo-saggistico Freddo a Napoli, apparso nell’edizione torinese dell'”Unità” l’8 gennaio 1949. Esso contribuì a mandare in frantumi luoghi comuni e consolidati pregiudizi su Napoli. All’abituale ricerca della bellezza, della solidarietà e della spensieratezza che si presumono proprie del Mezzogiorno, fin dall’inizio si sostituisce la brusca scoperta d’una realtà dilacerata.

Calvino comprende il “trucco di Napoli”, la quale appare bella e ricca al visitatore mentre attraversa la spina dorsale del centro storico; ma “sopra, sotto, scantonato un angolo” la città svela il suo inferno con quei ragazzi di strada che fanno parte, insieme a numerose figure umane, dell’“antichissimo alveare” della povera gente.

Lì c’era Toledo, la via bella, coi giovanotti a passeggio, e sopra, sotto, scantonato un angolo, questo antichissimo alveare. Questa era Napoli

La Napoli raccontata da Calvino, è una “città ignuda e seria“, una città di vetro, in cui non si poteva posare gli occhi in nessun posto senza violare un segreto. Una città che svela i suoi segreti e fa toccare il suo male plurisecolare mai risolto, la miseria, affrontata quotidianamente senza rassegnazione, ma con fermezza.

Anche scrittori stranieri, come Goethe, non sono rimasti indifferenti alle luci e alle ombre di Napoli.

Goethe a Napoli: la città senza vagabondi

La testimonianza di Goethe, poeta, drammaturgo, romanziere e scienziato tedesco, sul popolo napoletano è tratta dal suo Viaggio in Italia, compiuto tra il settembre del 1786 e l’aprile del 1788. Lo scrittore tedesco celebra le paesaggistiche di Napoli e la spensieratezza incrollabile dei suoi abitanti in un epoca d’oro, in cui la capitale era all’apice del suo splendore.

“Napoli è un paradiso, tutti vivono in una sorta di ubriaca dimenticanza di sé.”

A Napoli, Goethe, scrive di aver provato tra le sensazioni più forti.

Da quanto si dica, si narri o si dipinga, Napoli supera tutto: la riva, la baia, il golfo, Il Vesuvio, la città, le vicine campagne, i castelli, le passeggiate… io scuso tutti coloro i quali la vista di Napoli fa perdere i sensi!

L’entusiasmo di Goethe per la bellezza del posto non gli impedisce, però, di vedere le sofferenze di un popolo che troppo spesso vive nella miseria e l’ingegno che questa condizione stimola nei suoi abitanti. Il poeta sfata il mito dell’indolenza del popolo napoletano. 

“Rivolsi perciò la mia attenzione preferibilmente al popolo, sia quando è in moto che quando sta fermo, e vidi, bensì, molta gente malvestita, ma nessuno inattivo”.

L’osservazione diretta della città e dei suoi abitanti, porta lo scrittore a concludere che a Napoli non vi sono vagabondi, fannulloni o rubatempo; anzi proprio nella gran folla dei ceti sociali meno abbienti regna la maggior industriosità.

“Di tali esempi di parsimonia e attenzione nel profittare di ciò che altrimenti andrebbe perduto, ve ne sono qui a bizzeffe. Riscontro in questo popolo un’industriosità sommamente viva e accorta, al fine non già di arricchirsi, ma di vivere senza affanni”.

In conclusione, Napoli non è solo la città dell’allegria, del mandolino, del sole e della pizza. È una città dagli innumerevoli volti: bella e dannata, autentica e contradditoria, fragile e forte. O la si ama o la si odia. Ma una cosa è certa, tocca l’anima e resta nei cuori di tutti!

Print Friendly, PDF & Email
Ambasciator