Maschietto o femminuccia?
Il termine stereotipo deriva dal greco stereòs=rigido e topòs=impronta.
Il suo uso risale al 1700, quando era utilizzato dai tipografi per indicare gli stampi di cartapesta, usati per dare forma al piombo fuso.
Le caratteristiche degli stereotipi tipografici descrivono, in senso figurato, il significato attribuito comunemente a questo termine: sono fissi, rigidi e permettono di essere riutilizzati molte volte, proprio come gli stereotipi che rappresentano una sorta di impronta nella quale la mente umana racchiude la realtà.
Gli stereotipi costituiscono un insieme di credenze associate a un gruppo di persone, attribuendo a tutti quelli che vi appartengono le stesse caratteristiche (ad esempio, i napoletani sono imbroglioni, i tedeschi sono organizzati ma rigidi, etc.).
Nello specifico, lo stereotipo di genere implica aspettative culturali rispetto a ciò che è considerato “maschile” e ciò che è considerato “femminile” in termini di personalità, apparenza, abilità, interessi.
Quindi definisce ciò che le persone sono, ma anche come dovrebbero essere. Per esempio: all’uomo si attribuiscono le caratteristiche di forza, coraggio, razionalità, mentre alla donna di debolezza, paura e delicatezza.
In base al sesso biologico con cui si nasce, famiglia, scuola e società ci propongono abiti, giochi, modelli di comportamento e di relazione diversi e distinti tra loro. Il nostro comportamento è così influenzato, fin dalla giovane età, dagli stereotipi anche in maniera inconsapevole.
Stereotipi di genere e colori
Tali stereotipi sono trasmessi perfino attraverso i colori.
Comunemente si tende a vestire una bambina con abiti rosa e un maschietto con l’azzurro.
Ma da dove ha origine questa usanza?
L’uso dei colori per distinguere i neonati è un fenomeno recente.
Per molto tempo, infatti, i colori sono stati asessuati, anzi fino all’Ottocento c’era un solo colore: il bianco.
All’epoca si è assistito addirittura al fenomeno inverso per cui il blu, considerato un colore delicato, era più adatto alle femmine.
Il rosa era visto più vicino al rosso, colore del sangue, simbolo di guerra legato agli eroi, rispetto all’azzurro, considerato simbolo di purezza e associato al colore del velo della Madonna, ma dagli anni Cinquanta a oggi è esattamente il contrario.
In passato, quindi, era “normale” che un bambino indossasse un abito di seta rosa, con ricami floreali.
Nella metà del XIX secolo, uno dei primi riferimenti all’attribuzione dei colori al sesso si trova in “Piccole Donne” di Louisa May Alcott, dove un nastro rosa è usato per identificare la femmina, uno azzurro per il maschio.
La stessa autrice, però, indicò questa come una moda francese, senza alcun significato di genere.
Dunque, è a partire dal secolo scorso che cominciano a comparire colori per differenziare bambini e bambine.
Utilizzando il colore rosa e quello azzurro, poniamo delle etichette che non nascono spontaneamente, ma vengono imposte dalla società.
Natura o cultura?
Ad oggi, determinare se la preferenza per un giocattolo o per un colore sia innata o acquisita resta un dilemma.
A sostegno del nulla innato – tutto acquisito vi è la psicologa inglese Cordelia Fine, la quale afferma che le differenze tra i sessi sono frutto dell’educazione, della cultura, della società e sono gli stereotipi a incidere negativamente sulle performance.
Secondo una ricerca di Melissa Hines, docente di Psicologia a Cambridge, condotta nel 2005, su un campione di circa 100 bambini al di sotto dei due anni, non c’è preferenza di colore.
Al contrario ci sarebbe una leggera propensione, di entrambi i sessi, per il rosa, forse perché associato con l’immagine materna, il che fa pensare che fattori cognitivi o sociali influenzino lo sviluppo successivo.
E’ tutto normale?
Nella nostra cultura ci si preoccupa se, ad esempio, a un maschietto piace il rosa o piace giocare con le bambole perché si teme, tale preferenza, sia una dichiarazione di omosessualità.
Non c’è nulla di cui preoccuparsi.
E’ normale che i bambini sperimentino varie attività, specie perché stanno ancora sviluppando la propria identità e la comprensione del concetto di genere.
La maggior parte dei bambini gioca in un mondo fantastico dove è possibile diventare chiunque si voglia.
Ogni volta che ricoprono un ruolo diverso, imparano nuove abilità, vedono il mondo con occhi diversi e sviluppano empatia nei confronti delle altre persone. Non vedono il mondo come noi adulti, con le nostre idee su cosa significa essere maschio o femmina.
I bambini sperimentano la realtà attraverso i loro sensi e prendono delle decisioni in base a quello che piace o non piace.
La cosa più importante per i bambini è sapere che la famiglia sarà sempre pronta ad amarli, incoraggiarli e accettarli, a prescindere dalle scelte che faranno, dagli obiettivi che cercheranno di raggiungere e dai talenti che svilupperanno.
Sitografia
http://www.ilpost.it/2013/11/19/breve-storia-del-colore-rosa/
Bibliografia
Priulla G. (2013). C’è differenza. Identità di genere e linguaggi: storie, corpi, immagini e parole. Milano: Franco Angeli