Quando il calcio d’agosto era folclore

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I tempi della “prima uscita”

È tutto mutato, irrimediabilmente ci si è adeguati ai tempi e, di conseguenza, anche il calcio d’agosto è mutato.

Non parliamo di quello che sta accadendo, diretto risultato del confinamento cui siamo stati sottoposti dalla pandemia, ma del calcio in generale.

L’attuale, rispetto a quello di un tempo.

Il massimo campionato terminava e, al netto di Europei e Mondiali in caso di partecipazione alle fasi finali, la ripresa era fissata per la metà di luglio.

Al netto anche in maniera assai relativa, la Nazionale era “basata” su blocchi e qualche “esterno”. Ad esempio la difesa era tutta di un colore, il centrocampo e l’attacco altrettanto. Era normale che solo alcune, anzi poche, squadre dovessero fare a meno dei calciatori chiamati a rappresentare l’Italia.

Le squadre, al termine delle gare ufficiali, erano coinvolte in alcune amichevoli. Generalmente all’estero, per arrotondare le entrate e, nel contempo, per accontentare i tifosi  emigrati e che vi abitavano.

Poi il “rompete le righe” ufficiale e, senza possibilità di poter transigere, perfino la Federazione negava l’avallo all’ufficialità delle gare durante il mese di luglio. Eventuali partite, organizzate presso le località dei ritiri, avevano come arbitro l’allenatore o, comunque, un non appartenete all’AIA. Anche le allora “giacchette nere”, non avevano il nullaosta per dirigere incontri in tale periodo.

Il romitaggio

Così era denominato il ritiro pre-campionato; un luogo abbastanza decentrato da grandi affluenze e, inoltre, tranquillo e sereno, in maniera da permettere agli atleti una vita assai ritirata.

Abbadia San Salvatore, Barga, Castel del Piano, Asiago, Gubbio, Calalzo di Cadore, Vipiteno e tante altre erano le località che ospitavano le squadre della massima divisione.

Allenamento e riposo. In albergo si giocava a carte o a bigliardo, si passava il tempo chiacchierando senza nessun assillo, derivante da doveri di sponsor e di obblighi televisivi.

Appunto si chiamava romitaggio; nessuna intrusione esterna, se non gli inviati sportivi dei giornali interessati.

Erano loro, gli inviati, il collegamento tra i propri beniamini ed i tifosi. Il calcio mercato era chiuso e, quindi, i trasferimenti al momento del ritiro erano già perfezionati.

Così si seguivano i nuovi acquisti, se ne appuntavano le qualità che avrebbero aumentato il tasso tecnico della squadra, risolto i problemi – in un determinato settore – dell’anno precedente.

Insomma i “nuovi arrivi”, portieri, difensori, centrocampisti o attaccanti, non facevano differenza. Per i tifosi importante era sapere che fossero acquisti azzeccati.

La presentazione

Alla fine del ritiro, le squadre raggiungevano il proprio quartier generale; era abitudine dell’epoca concedere all’intera rosa qualche giorno di riposo. L’appuntamento, per il ritrovo, era in vista della partita d’esordio davanti al propri pubblico; un incontro programmato, di solito, subito dopo il ferragosto. La squadra avversaria, abitualmente, straniera. Per il Napoli meglio se Sud Americana, per via degli assi del pallone che avrebbero richiamato ancora più tifosi al San Paolo.

A Fuorigrotta, in quegli anni, tra abbonati e titoli di ingresso, per ciascuna partita, si contavano – nelle migliori occasioni – circa 80000 spettatori.

Ricordo, personalmente, la presentazione del Napoli al San Paolo, per  l’anno 1967/1968. Il primo di Dino Zoff; prelevato dal Mantova, quando già sembrava destinato al Milan.

Si narra che fu, qualche minuto prima della chiusura del mercato, sfilato ai rossoneri grazie ad un’estemporanea pensata di Bruno Pesaola e di Alberto Giovannini – direttore del “Roma”, allora proprietà di Achille Lauro che era anche il Presidente degli azzurri – che si inventarono uno scambio di persona e, per 120 milioni più il cartellino di Bandoni, portarono il portiere friulano all’ombra del Vesuvio.

La prima uscita fu contro l’Independiente, prestigioso club argentino di Avellaneda – a sud di Buenos Aires – i cui giocatori ancora oggi sono detti “diavoli rossi”, per via dei colori sociali.

Con il “Petisso” allenatore, era il Napoli di Sivori e di Altafini, di Juliano e Panzanato, di  Bianchi e Zurlini; oltre al capitano “Tatonno”, altri due napoletani: Montefusco e Abbondanza.

Alla fine del primo tempo, se la memoria non mi inganna, il Napoli conduceva 2-0; pubblico in visibilio, per la prestazione sciorinata nella prima parte e, in effetti, nessun serio pericolo era stato portato, alla porta napoletana, dagli argentini.

Zoff applaudito ed invocato, solo per qualche pallone di alleggerimento (si poteva “passare” la palla al portiere che poteva disporne con le mani per il rinvio).

La ripresa tutta altra musica: Independiente all’attacco e Dino Zoff chiamato in causa. Interventi applauditissimi; finalmente il pubblico vedeva all’opera il nuovo numero 1.

Ad un tratto una saetta dal limite dell’area napoletana, Zoff si allunga, ma non intercetta; alle sue spalle la traversa respinge il tiro e il portiere resta imbattuto.

E qui il geniale folclore napoletano. Un signore, qualche scalinata più avanti rispetto al mio posto, si gira e chiama un signore immediatamente alle mie spalle.

“Cavaliè…cavaliereeeeee…cavalièèèè…”

Il “titolato”, dietro di me, risponde: “Dite don Alfò…”

E don Alfonso pronto:”Cavaliè, stam a posto, chist ten pur ‘o mazzo”.

Solo per completezza di informazione, mi sembra che l’incontro finì 2-0.

Tempi irripetibili, ma non del tutto – forse – sconvenienti neppure oggi.

Tornerebbero tutti, credo, con i piedi per terra.

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